martedì 28 gennaio 2014

Il fascino discreto dei boss.

Se il sottoscritto fosse single, probabilmente a casa mia non si uscirebbe dal recinto dei talk politici e del connubio Rai 3-Rai Storia: sarei una sorta di talebano occidentale, un molare ramingo nel deserto del tartaro.

Invece quando sei in coppia la tua metà può portarti a scoprire cose impensate, e talvolta avere al fianco una donna che non teme il trash perché capace di domarlo alla perfezione aiuta (io mi sento sempre come Gerardo, l'amico di Moretti in "Caro Diario", allergico alla televisione fin quando non incoccia casualmente in una soap opera). Insomma, sta di fatto che ieri abbiamo visto (una parte di) "Boss in Incognito", programma di Rai1 condotto da Costantino della Gherardesca in cui un austero dirigente d'azienda smette i propri panni griffati per indossare quelli ben più modesti dei propri impiegati, i cui diversi ruoli impersona per sette spossanti giorni. Alla fine, nel più classico stile italiano, saranno lacrime e pacche sulle spalle: il nostro dirigente si scoprirà buono, incontrerà i "colleghi" che gli hanno fatto da tutor, e li premierà con ricchi doni e cotillon per avergli insegnato qualcosa della propria azienda e - a giudicare dal suo pianto copioso - della vita.

Avete notato? I boss tornano alla carica. Più si avvicina la rivoluzione sociale, più si spreca il paragone dell'Italia come "polveriera", più cresce il malcontento... più la televisione ci propina i boss. Una categoria televisivamente ancora inesplorata, o quantomeno vista dal solo, facile punto di vista del "villain": invece perché non scoprirne il lato umano? E allora ecco i "The Apprentice" e i "Boss in Incognito", format dove a farla da padrone è il capo, colui che è intollerabilmente pieno di soldi. Ma che, attenzione, è pieno anche di umanità. Un po' come quando Jo Squillo e Sabrina Salerno dicevano delle donne che "oltre alle gambe c'è di più".

Ma torniamo al nostro "Boss in Incognito": il format è americano, e io l'avevo beccato quest'estate negli USA. Ma, ovviamente, era tutt'altra cosa, con una spettacolarizzazione certo maggiore della vicenda, ma con un branding meno invasivo e soprattutto senza moralismi e pietismi assortiti: la versione nostrana pare un misto tra il Canto di Natale di Dickens e "Anche i ricchi piangono" di Driveiniana memoria. E, proprio come urla Gerardo scappando dall'isola di Alicudi sprovvista di elettricità, "non è vero che la televisione trasmette il nulla": perché nelle pieghe di una trasmissione scialba e democristiana come questa si nascondono tutti i mali dell'Italia. Un'Italia che abbandona la meritocrazia in favore del "dono", elargito dal mecenate di turno non a chi vale ma a chi soffre: e quindi diecimila euro per gli studi del figlio dell'impiegata che l'ha gentilmente invitato a mangiare un boccone a casa, viaggio a Parigi e mutuo abbuonato alla ragazzina senza padre, un contratto full time alla signora in là con l'età abbandonata dal marito (il cui contraltare, però, è la pubblica mortificazione di vedersi trasmessa su tutte le televisioni del Paese mentre balbetta "se ho fatto qualcosa di male mi spiace... io amo il mio lavoro... mi fa vivere almeno dignitosamente...").

Siamo un Paese povero? Sì, e in primis di valori, di dignità: qualche tempo fa sui social girava la foto del graffito "Lavori per comprarti la macchina per andare a lavorare", ed è proprio a questo che siamo. Il lavoro non lo esigiamo, non speriamo nemmeno più di averlo perché siamo bravi, ma lo elemosiniamo, siamo disposti a qualsiasi mortificazione pur di averlo, anche di friggere su una sedia in attesa del capo supremo (con poltrona in pelle umana, ovvio) pur sapendo di non aver fatto nulla di male.
In Italia mancano regole e senso civico che sanciscano il merito come discriminante, e il risultato è che i capi si trasformano in boss, e i boss in benefattori.